
Da zerocalcare a Samarcanda, con cambio a Freetown
di Lucio Cascavilla
Quante cose hanno in comune la Cina, l’Inghilterra e la Sierra Leone? 7? 125? Un triliardo?
Una di certo. Il mio peregrinare che dopo un lungo soggiorno in Cina, e un altro meno lungo
in Inghilterra mi ha portato a varcare la soglia della Sierra Leone, sbarcando a Free Town.
Sono arrivato nel 2019, e ne sono andato via nel 2021, qualche litro di sudore più tardi. Viverla
è stato diverso dall’immaginarla e visitarla, non avendo avuto una guida premurosa e ben disposta a farmi cogliere le cose più belle e interessanti, o a evidenziare tutto ciò che potrebbe
fare notizia.
Sono uscito da solo, sono stato chiamato Pumui o Musungu (bianco in Krio o Swahili), a
seconda della latitudine, ed ho contrattato anche il prezzo delle baguette che vendono agli
angoli delle strade con uovo sodo e maionese o latte condensato dolce, improbabile sostituto
locale della nutella.
La mia permanenza in questo paese mi ha in qualche modo segnato, portandomi alla produzione di un documentario, ormai in dirittura di arrivo (The Years We Have Been Nowhere),
alla realizzazione di questa graphic novel, di cui sono particolarmente fiero, che stringete in
pugno (spero), di un racconto (pubblicato nell’antologia “Voci in fuga” – Prospero editore) e
di un romanzo pubblicato a puntate, gratuitamente, sul mio blog (impresentabile.net/blog- A
piedi nudi tra le mangrovie).
Una fonte inesauribile d’ispirazione?
Sijui (Che in Swahili significa non lo so).
A Freetown però queste storie non riescono a circolare: non esiste una vera e propria libreria,
non c’è un cinema e non ci sono teatri, ma i racconti ti inseguono rincorrendosi, intorno ai
tavoli posti sul limitare di strade assolate e polverose.
Ed è sotto questi tavoli, stringendo una birra calda (perché come ripeteva il mio amico Abdulay: i frigoriferi sono arrivati solo qualche anno fa, durante la guerra civile bevevamo birra
rovente), che le tre storie hanno trovato me. Mi hanno ghermito e mi hanno costretto, con la
collaborazione di Marco Vesco, Assia Ieradi, Riccardo Mattia e la preziosa assistenza di Giulia
Pavani, di Morsi, a raccontarvele.
La prima mi è ronzata in un orecchio appena giunto a Freetown; ho cominciato a fare il vo
–
lontario per una associazione locale: un gruppo di ex-deportati che si occupava di accogliere
i nuovi deportati. Ho spesso associato la parola deportazione a storie come “il sentiero delle
lacrime”, in cui il civilissimo popolo Cherokee viene “spostato” dai militari, sino in Oklahoma-
romanzato nella storia di Zagor “La lunga marcia” oppure al capolavoro di Art Spiegelman,
Maus, quando tutta l’Europa sarà protagonista della deportazione di una sola popolazione).
Più che una campanella è stato un gong ed in un attimo ho scoperto che le deportazioni non
erano faccenda da libri di storia, ma attualità e cronaca.
In seguito all’arrivo dei migranti sulle nostre coste i politici compiacenti (di tutti gli schieramenti) parlano con soddisfazione di ritorni a casa, rimpatri, con numeri, grafici e sorrisi.
E se invece parlassimo di persone?
Abbas l’ho incontrato nell’ associazione con la quale ho collaborato. Era partito e non era mai
arrivato; degli Stati Uniti aveva intravisto il sole attraverso le grate della prigione, ma è stata
premura del governo americano riportarlo indietro; di notte in modo che nessuno sapesse.
Regina invece non si chiama così, e me lo ha detto subito: “fai troppe domande, se devi raccontare a qualcuno qualcosa di questo posto, non usare il mio nome”.
“Per favore”.
Ci vedevamo al bar e più che raccontare lanciava frammenti in aria, come quelli delle bombe
che si era lasciata alle spalle, durante la presa di Freetown (a proposito se avete tempo date
un’occhiata al documentario: Cry, Freetown).
Foday invece l’ho incontrato dalle parti di un hotel, in attesa di qualche sigaretta o qualche
spicciolo; non so cosa fosse vero di quel che mi raccontava (più era generosa la mancia, più
lunga era la conversazione, ma non siamo noi stessi veicoli di storie altrui?). La sua storia l’ho
ricostruita mescolandola a varie letture che avevo fatto (“Chi asciugherà queste mie lacrime”,
non è un gran libro, ma è una bella testimonianza di quel che è accaduto durante la guerra) e
a svariati articoli sul problema delle disabilità.
Ho ancora impressi nella mente gli occhi del mio amico Brima quando una volta mi disse: è
soprattutto in Africa che ti rendi conto di quanto una persona con un problema o una disabi-
lità, sia figlio di un Dio minore.
In questi tre anni, durante i quali ho sovrapposto la mia vita a quelle di Abbas, Foday e Regina
ho capito poco del mondo e del perché si combattano le guerre, ma ho compreso che i destini
degli uomini sono connessi, che vivano in Cina, in Africa o in Europa..
Lucio Cascavilla- Bukavu- Repubblica Democratica del Congo, 22.02.2022